Ma il re non ha niente addosso
“Ma il re non ha niente addosso”
Il mondo della moda è un po’ così, come la fiaba danese di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore. Troppo spesso stilisti e case di moda sembrano interpretare la parte del vanitoso imperatore che commissionò, a due finti tessitori, un abito creato con un innovativo tessuto avente la peculiarità di risultare invisibile agli stolti.
Ciò che adoro nella fiaba è la purezza e innocenza del bambino che riesce a dire sinceramente, nonostante la folla di ammiratori e adulatori, che il re, in realtà, fosse nudo mentre il popolo, pur di non apparire indegno e sciocco, si ritrova a mentire elogiando una virtù inesistente a servizio del potere.
Lo stiamo vedendo nella stampa e nei social che troppo spesso si fanno pubblico malleabile della moda, descrivendo sfilate, collezioni ed eventi come i degni figli della nuova sostenibilità nel mondo del fashion.
É da un mese che i big della moda presentano le loro nuove collezioni ad appassionati e sognatori. Un tour di toulle, make up e acconciature, arte ed effetti speciali (specialmente sul copro di Gigi Hadid) che irrompe nelle più famose e instagrammabili capitali mondiali: da New York a Milano, da Londra a Parigi.
Il problema è che quando le luci delle passerelle si spengono e le modelle finiscono di struccarsi, quello che rimane è un peso insostenibile.
Secondo i rapporti della CFDA, la settimana della moda di NYC, arriva ad emettere 48mila tonnellate di anidride carbonica per evento. Un dato che ha subito scatenato le richieste del corrispettivo a Parigi, Milano e Londra e la conseguente richiesta di digitalizzazione di questa industria verso nuove avanguardie virtuali e di NFT.
Messaggi contorti
La comunicazione, minuziosamente studiata delle varie case di moda, vuole promuovere la sostenibilità dei vari brand. Anche questa una moda, si può dire. Perché il mondo del fashion si è reso conto che la sostenibilità ha un’influenza sempre maggiore nelle scelte di acquisto e quindi sta facendo di tutto per ripulirsi l’immagine, cercando di far dimenticare che, negli ultimi 25 anni, non è riuscito a diminuire il proprio impatto planetario.
Ci sono state svariate provocazioni per portare sulla bocca della stampa l’impegno green, vero o adeguatamente preparato, di alcuni marchi.
Durante la sfilata di Balenciaga, le modelle si sono destreggiate nel fango. Un messaggio per dire “avete fango nei vostri occhi”. Il set è stato realizzato dall’artista spagnolo Santiago Sierra, che aveva creato un’installazione simile chiamata “House in Mud” nel 2015 in Germania. Una presa di posizione per risvegliare le coscienze alla crisi climatica e ai conseguenti cataclismi?
Mah.
Lascia poi dubbiosi, la collaborazione tra Balmain ed Evian, lanciata durante la Paris Fashion Week, ovvero la creazione di un abito couture in tessuto realizzato con il 46% di bottiglie di plastica reciclate del marchio francese. Utilissimo considerando che non solo anche il riciclo della plastica ha un peso, ma che si tratti di un’azienda che fa pagare l’acqua ben oltre la sogli di normale creanza, considerando il bene di prima necessità di cui stiamo parlando.
Una Stella… McCartney
La stilista Stella McCartney è impegnata nel rendere la sua moda eco-friendly dal 2003. Infatti da oltre 20 anni l’omonimo marchio utilizza tessuti sostenibili e ha bandito la pelle e la pelliccia.
Parliamo di materiali come il cotone biologico, nylon proveniente dal riciclo di reti da pesca o un simil Tencel derivante da foreste certificate.
Inoltre tutta la sua filiera è tracciabile nel sito web del brand, un’ulteriore impegno della stilista a rendere le sue collezioni un esempio di moda circolare.
Infine, Stella McCartery viene seguita dall’azienda Kering per la redazione del proprio rapporto volontario di sostenibilità in cui si valuta il proprio impatto ambientale e sociale.
Green washing o quasi…
Gli stilisti di rinomati brand ci tengono a sostenere a parole il loro impegno per la sostenibilità. Abbiamo visto la messa in scena di show carbon-neutral, peccato che poi il sistema fashion sia rimasto affossato nel suo modus operandi tradizionale, continuando a pesare sulla crisi climatica.
Siamo molto lontani dall’eco-consapevolezza di cui invece troppi si stanno vantando. Perché meno-insostenibile non vuol dire sostenibile.
Ci sono ancora troppi nuovi articoli immessi nel mercato che vengono poi bruciati, troppi capi realizzati con tessuti sintetici non biodegradabili a base di petrolio, troppi indumenti e accessori realizzati con pelli e pellicce vere, troppi capi che prima di essere venduti vengono spediti da una parte all’altra del mondo per le varie fasi di lavorazione.
Cosa fare?
Per le case di moda sarebbe necessario lavorare sulle proprie catene di approvvigionamento, riuscendo a definire veramente un uso consapevole delle risorse, visto che oggi meno dell’1% di tutto l’abbigliamento viene riciclato in nuovi capi.
Non parliamo solo del fast fashion, ma di un’intera industria che che vive sulla voglia di acquistare da parte dei consumatori. Guardando i numeri notiamo che Zara offre 24 nuove collezioni di abbigliamento ogni anno, mentre H&M offre da 12 a 16 e le aggiorna settimanalmente. Si tratta di una inutile e malsana proliferazione della “novità” per mantenere attiva la clientela.
Per i privati che vogliono fare una scelta consapevole, il miglior impegno è di investire nel recupero di capi, acquistano nel vastissimo mercato second-hand.
Perché è meglio avere addosso dei boots in pelle di 10 anni comprati in un mercatino vintage, che degli stivali in ecopelle made in Taiwan.