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Il giro del mondo in 3 tonnellate

di Caterina Boschetti, 28/06/2022

É splendido poter scegliere al supermercato tra ananas, papaya, mango e avocado. I nostri occhi sono pervasi da delizie tropicali a portata di ortofrutta. Un’esplosione di colori e di sapori che ci fa sentire in un mood esotico anche nel profondo della nostra val padana. 

Ma volando in America il discorso potrebbe valere per il Parmigiano Reggiano grattugiato sopra una lontana riproduzione della tradizionale pasta al pomodoro italiana.

La domanda di svariati prodotti alimentari provenienti da tutto il modo ha viziato la nostra percezione non solo di frutta e ortaggi di stagione, ma anche caratteristico di certe zone del mondo. 

Ci siamo infatti abituati ad avere il meglio che la natura abbia da offrire piegando le coltivazioni e le specialità DOC alle nostre abitudini.

Oggi giorno infatti è possibile trovare qualsiasi tipo di prodotto indipendentemente dalla stagione e dall’area geografica in cui ci troviamo. 

Purtroppo questa vasta offerta dal sapore di internazionalizzazione pesa moltissimo dal punto di vista di impronta ecologica a causa del loro trasporto.

 

EMISSIONI DI CO2

Il problema che ne deriva è il trasporto che si è rivelato essere un punto focale dell’intera filiera di approvvigionamento alimentare. Infatti l’impronta ecologica del cibo risulta essere stata sottostimata dalle 3,5 alle 7,5 volte. Parliamo infatti di oltre 3GtCO2.

Secondo un report della School of Physics dell’università di Sidney pubblicato su Nature Food, questi trasporti equivalgono al 6% delle emissioni globali di gas serra.

I cibi più pesanti dal punto di vista di impronta ecologica sono proprio la frutta e gli ortaggi che contribuiscono con il 36% delle emissioni di chilometri di cibo, quasi pari al doppio della CO2 rilasciata durante la loro produzione.

Poi troviamo i cereali, la farina e la carne (quest’ultima però ha un’impronta oltre 7 volte più alta di quella di frutta e verdura nella fase di produzione).

A capo dei ricercatori australiani, Mengyu Li commenta “Poiché frutta e verdura richiedono un trasporto a temperatura controllata, le loro emissioni alimentari per Km sono più elevate».

 

LA SOLUZIONE?

La filiera corta, partendo dal noto e prezioso “chilometri zero”, permette non solo di supportare i produttori locali, ma anche di influire in maniera molto meno impattante sull’ambiente dal punto di vista dei trasporti.

Lo staff di ricercatori ha calcolato che la riduzione delle emissioni di CO2 che si potrebbe ottenere se la popolazione mangiasse solo localmente sarebbe pari a 0,38 gigatonnellate, ovvero le emissioni dovute al trasporto di una tonnellata verso il Sole e ritorno, 6.000 volte.

Si tratta tuttavia di un’ipotesi impraticabile a causa di regioni non autosufficienti dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare e del modus cogendi insito nelle abitudini quotidiane di consumo difficili da sradicare.

Di certo, questo giro del mondo di cibo, ce lo rende al gusto.. pieno di emissioni.

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